"Quando pensammo a un marchio da registrare digitai su Google la parola caos e venne fuori entropia" non un disordine ma un ordine complesso, la teoria del caos che propone per l'universo un ciclo di ordine e disordine... Questa è la storia di EntrophyMotorbike.
Nicolò Mori non è più solo un pilota. Non lo è più da diversi anni e oltre ad avere un team - Entrophy Enduro Racing - a cui si è aggiunta quest'anno la Junior Factory del Team Beta, il pilota perugino ormai da qualche tempo ha creato dal nulla Entrophy Motorbike, un marchio che racchiude in sé una vera e propria filosofia di costruzione. Chi conosce questo ragazzo di trent’anni, compiuti a gennaio di quest’anno, sa che è uno con la testa sulle spalle, coscienzioso, serio, affidabile e negli ultimi anni lo ha dimostrato praticamente in tutto quello che ha fatto.
Dal 2016 la sua vita prese una piega diversa, che mai probabilmente si sarebbe aspettato ma che in realtà gli ha aperto nuovi orizzonti portandolo a scoprire cose, di se stesso, che forse non avrebbe mai trovato. Sulla sua strada è inciampato in qualche cosa di diverso e questo articolo ve lo vuole raccontare.
Tutto ebbe inizio dall’incidente del 2016, durante il cross test al Mondiale di Fabriano…“Il 2016 fu un anno difficile – racconta nel corso di una lunga e bella intervista Nicolò, nel suo atelier di Perugia – ma quando arrivò il Mondiale mi sentivo bene. Correvo con la TM allora ma con il senno di poi mi rendo conto oggi, che non ero lucido mentalmente. Ero già caduto altre volte in gara ma quel giorno fu ancora più pesante. Caddi mentre andavo a velocità stratosferica e in tre secondi mi resi conto di essere paralizzato: a parte la bocca non muovevo nulla. Lo capii subito perchè non persi conoscenza e pensai immediatamente ok, è andata a finire così…”
In realtà si trattava di un’ernia che uscendo aveva toccato il midollo trasmettendo una forte sensazione di formicolio “restai fermo quasi un mese e mezzo ma poi risalii in moto, facendomi addirittura aiutare perché non riuscivo ad alzare una gamba. Ripresi, lentamente, ma dopo poco persi la vista, in una gara, a Varzi. Venne papà a riprendermi in speciale perché io mi ero dovuto fermare…non vedevo nulla. Mi visitarono e ne risultò che soffrivo di una encefalopatia traumatica e per la prima volta nella mia vita mi fermai. Non lo avevo mai fatto prima, neanche quando mi ruppi lo scafoide, all’epoca correvo in KTM con Farioli. Ero quarto nel mondiale e corsi lo stesso, fino a fine stagione e oggi, infatti, non piego più i polsi. Dieci giorni dopo essermi operato e aver messo una vite all’interno andai a correre a Lumezzane…”
Nicolò però stavolta si fermò dimostrando quella maturità che da sempre lo contraddistingue: "Fu la prima grossa paura della mia vita e rimasi fermo un anno perché non era più solo un osso o un muscolo, bensì il cervello, la testa. Così restai a casa e mi inventai qualcosa. Non potevo più fare nulla: non potevo correre a piedi, o in bici, fare palestra, niente. Mi consigliarono di dormire molto, ma io sono uno che già di suo dorme pochissimo…Cercai qualche cosa per restare attivo e così cominciai a lavorare sulle moto, a casa. Quando finisci la carriera nell’enduro non ti rimane moltissimo, e io ci tenevo invece a restare in questo mondo, a mantenere un legame e ci sono riuscito".
E ricostruisce la storia degli ultimi quattro anni: "Il team il primo anno funzionicchiò: Paolo Lucci e io partimmo con la macchina e bussammo alle porte delle aziende alla ricerca di sponsor, di qualcuno che credesse in noi. Passammo tre mesi divertentissimi, perché nessuno dei due aveva altro da fare e così girammo tutta l’Italia mostrando la brochure e parlando del nostro progetto. Riuscimmo a trovare abbastanza per disputare la stagione, la prima. Poi lui si dedicò ai rally e io continuai invece, con la squadra. Arrivò Beta insieme ai primi piloti e il mondo cambiò perché quando sei pilota non ti rendi conto di quanto sia faticoso fare il team manager. E invece è davvero impegnativo…un lavoro psicologico prima di tutto, fatto anche di pazienza, giorno dopo giorno; non indifferente".
Ma Nicolò non abbandonò del tutto la moto: "Dopo aver seguito le indicazioni dei medici tornai a farmi visitare e mi dissero che stavo bene, era la fine del 2017. Decisi di tornare in moto, a mio rischio e pericolo, e la stagione andò bene, feci qualche bella gara, chiusi soddisfatto il Campionato degli Assoluti e partimmo anche con la nostra attività…"
E fu un incremento lento, fatto di sacrificio, tanto, anima e cuore.
"La prima moto che creammo fu la Marla di un cliente" e quando lui non la usa la tiene da Nicolò nella sua officina/atelier a sottolineare che una moto Entrophy è qualche cosa che unisce, un rapporto che si crea e non si perde più, per tutta la vita: "la cosa bella di questo lavoro è che con i clienti si crea un'interazione incredibile. Oggi vedo questo lavoro come una fortuna…se ci ragioni sopra ti rendi conto che raramente vedi un pilota di enduro che quando smette di correre si ritira a fare la bella vita, o si trasferisce in qualche luogo da sogno. E' normale chiedersi 'Quando finisce il divertimento che cosa resta? Enduristi ricchi ce ne sono?' Forse è stata una fortuna quello stop forzato perché oggi mi ritrovo un'attività…"
Lui la fa semplice, ma alla base di questo successo c'è la bravura di Nicolò che ha avuto anche la fortuna di incontrare sul suo cammino persone che lo hanno aiutato e affiancato, sposando le sue idee e fantasie e aumentando un estro che si respira fin dal primo passo che si muove dentro l'atelier di Perugia. "Sono uno che si impegna tanto sulle cose… Sono molto forte mentalmente; non mi sono mai definito un talento, ma ero un lavoratore, alle 7 cominciavo la giornata di allenamento e la sera finivo alle 8, tutti i giorni, non sgarravo mai. Il mio standard di allenamento è molto alto anche se oggi con questi impegni non riesco più ad allenarmi come vorrei".
In Una vita da Mediano Ligabue definisce bene quelle realtà come quella di Oriali, e Nicolò Mori appunto…"è vero, mi dovevo allenare molto più degli altri per raggiungere certi risultati, però avevo capito che il talento naturale è una cosa che hanno in pochi e se non ce l'hai devi far fatica. E adesso mi alleno per e con i miei ragazzi, vado a girare con loro e se c’è bisogno mi fermo e li seguo, uno per uno, cercando di migliorare la tecnica. Vado in bicicletta con loro ma non ho più un piano di allenamento…"
E nel 2019 sono arrivati i primi risultati nel Campionato italiano "ed è stata una soddisfazione enorme. Alle ultime gare - confessa Nicolò - io avevo finito i soldi e non sapevamo come fare. Ne parlai con Jacopo Traini, uno dei nostri piloti, e fui sincero. Gli dissi 'se vuoi io la moto te la preparo come si deve, ma per farlo abbiamo bisogno di soldi, se mi dai una mano a consegnare dei lavori che ho in sospeso possiamo pensare di investire quello che guadagniamo nella tua moto' e lui accettò. Comprammo i pistoni e le bielle e preparammo due motori". E con le Cafè Race tante persone hanno scoperto la squadra, e la passione di tutti coloro che ne sono coinvolti. "Le persone si avvicinano e ci aiutano, è così che siamo andati a fare il Mondiale di Enduro nel 2020. Mi piace. Jacopo due anni fa si è trasferito a Perugia da sconosciuto, si è giocato il campionato italiano e ha smosso il paddock perché tutti hanno assistito alla sua trasformazione e crescita. Io sono sempre con i miei piloti, dalle 7 di mattina in palestra. Ci sono sempre, a livello psicologico, quando hanno problemi, quando sono arrabbiati e hanno bisogno di sfogarsi. Vivere da Jarno Boano mi ha aiutato molto, mi ha formato e ho imparato: sono stato fortunato ad aver fatto queste esperienze da pilota. Filippo Grimani, per esempio, ha un potenziale enorme, ma bisogna tenerlo a freno anche se non gli manca niente e sa andare forte. Mi piace questa attività. Siamo un gruppo di persone che la sera si ferma in officina, mangia insieme e sfrutta ogni singolo momento. I ragazzi vedono che io affronto tanti sacrifici e di conseguenza li fanno anche loro e mi affiancano, in tutto quello che faccio".
Nicolò Mori, capace di seguire una sensazione, e di inventarsi una professione, checchè ne dica lui, che di sicuro aveva già dentro, questo è certo. Basta guardarsi intorno: "E’ stata una cosa positiva, è vero. Quello delle customizzazioni è un mondo particolare e mi ha aiutato a scoprire un lato di me, estroso, strano. Tutto quello che c’è qui l’ho fatto io. A Pasqua dello scorso anno con mia mamma e Paola invece di festeggiare ci siamo chiusi qua dentro a creare questa porta…"
Una delle prime Cafè Race Nicolò la costruì per Ivan Cervantes: "Mi sarebbe piaciuto avergliela fatta in questi ultimi anni perché il livello è migliorato ma ammetto che era venuta magnifica. Lui aveva visto le mie moto perchè ogni tanto le portavo sulle gare, e poi da Fabio Farioli, e mi ha chiesto 'fanne una anche per me'. Lo feci ma confesso che avevo un po’ d’ansia da prestazione perché stavo lavorando per Cervantes, uno il cui poster sta ancora appeso sopra al mio letto. Non avevo il tornio, non avevo la fresa, e non sapevo ancora saldare…La qualità che c’è adesso non era quella di allora ma venne davvero un bel lavoro".
Ma tutti i lavori di Entrophy sono particolari perchè nascono prima di tutto dal cuore "per me è sempre stato un lavoro fatto con il cuore, con il sentimento, non certo per diventare ricco. Mi piacerebbe che questo marchio venga conosciuto, che diventi un’ispirazione…Noi parliamo di una nuova filosofia di moto e speriamo cresca a livello di prestigio. Mi piace definirla una forma d’arte e mi accorgo che stiamo andando sempre più verso il lato artistico e questo mi piace. Questo posto si caratterizza rispetto a tanti altri e nel mentre anche il team sta prendendo una sua configurazione. Nel 2020 ci chiesero di arredare un negozio…noi accettammo pur senza averlo mai fatto prima. Ci mettemmo con Paola a saldare, costruire mobili...progetto, disegno, facemmo tutto. Chissà magari dal prossimo anno faremo Interior design, chi lo sa. Ma sono sicuro che ci siano tante persone contente di quello che faccio…L’attività funziona a 360° facciamo tante cose e siamo un po’ particolari…è un mondo strano questo, lo so, ma funziona".
Oggi le richieste per le Special sono aumentate: "ci stiamo specializzando e il lato artistico ha acquisito il suo valore. In un anno costruiamo da zero circa una moto al mese, al massimo un mese e mezzo" e sono maniacali nella ricerca del dettaglio, della perfezione artistica perchè chi ordina una moto di questo genere vuole davvero qualche cosa di particolare. "E' una vera e propria filosofia di costruzione. Alcuni pezzi li abbiamo disegnati da zero perchè vogliamo che chi possiede questa moto ne sia innamorato in quanto moto unica, personale, cucita addosso alla persona, e deve avere l’effetto che ha quando va in giro. Non è una moto commerciale".
Ma all'interno di questo capannone così originale ci sono accanto alle moto da enduro e alle
Cafè race anche Vespa, scooter e piccoli camion, mentre un'Ape Piaggio fa bella mostra di sé su un piano rialzato. "Quello del restauro è un mondo che in un certo senso non mi fa impazzire anche se c’è un ricordo legato a mio nonno che, per esempio, aveva 16 Vespa. Papà e nonno hanno sempre avuto questa passione ed è un mondo che sta crescendo…stiamo tornando al vintage perché negli ultimi anni il mercato si è standardizzato, non c’è più una moto che segna la storia. Nel 1979 lo scooter Honda che comprò mio papà - e che si trova proprio accanto alla porta d'entrata -
ha segnato la storia, il corso della storia, era avanti anni luce. Stiamo parlando di quei mezzi che ti generavano un tuffo al cuore, e oggi non succede più. Una moto che ha cambiato il mondo, che è diventata famosa, che ha stravolto il mercato, non c’è più. Gli scooter sono tutti uguali, le auto sono tutte uguali…negli anni Novanta o addirittura Ottanta c’erano molte più proposte…Stiamo tornando ai restauri di questi mezzi, abbiamo lavorato sulla Cagiva Mito e sull’Aprilia Sintesi e me ne sono innamorato. Io mi appassiono della storia dei mezzi, come sono nati, il lato meccanico. Mi piace restaurare una Vespa perché c’è una gran ricercatezza nel mezzo, non è facile farlo. E stiamo facendo grandi step anche nell’esperienza: durante il Covid nel 2020 abbiamo restaurato un camion, se me lo avessero detto due o tre anni fa, avrei pensato che fossero pazzi".
C'è un po' di entropia in tutto questo? "Non capisci la vera natura di alcune cose, il vero perché…si incastrano dei tasselli che funzionano e mi piace questo misticismo che sta dietro le cose. Chi vuole questo tipo di moto, cafè race, è un personaggio. Si identifica e alcune creazioni hanno la stessa eleganza, o grinta di chi la guida. I miei clienti li riconosci dalle moto che vedi qui dentro, potresti assegnarli le moto senza che io ti dica quale sia la loro".
La chiave del successo di questa avventura sta in tante piccole cose e nelle persone: "Luis per esempio, è bravissimo, sa fare molte cose. Con lui abbiamo creato un segmento dedicato per chi ci richiede la preparazione dei motori. Siamo sulla strada giusta. La chiave di questo posto è che finora non abbiamo guardato la fatica o il lato economico perchè avevamo un obiettivo da raggiungere. Abbiamo iniziato perché ci piaceva fare questo…non avevamo i mobili e non avevamo i soldi per comprarli e così ci hanno regalato il ferro e abbiamo creato tutto. Quando siamo entrati in questo capannone, chiuso da quarant'anni,
non c’era niente. Abbiamo preso un cestello e l’idropulitrice e creato tutto, portando dentro gli attrezzi che erano stati di mio nonno".
Oltre anche alla porta della limonaia di nonno che fa bella mostra di sé in mezzo all'officina, separando due mondi che in fondo in fondo però fanno parte uno dell'altro. Da una parte i sogni e i progetti, dall'altro l'estro della realizzazione.
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